Malattia di Alzheimer: è una “epidemia sociale”, un nuovo modello di assistenza per ridurre l’impatto sulle famiglie

ROMA – Una vera e propria “epidemia” sanitaria e sociale, con oltre 600.000 mila pazienti, destinati rapidamente ad aumentare, e un impatto crescente sul sistema sociale ed economico dell’Italia, Paese più longevo d’Europa, con 13,4 milioni di ultrasessantenni, pari al 22% della popolazione.

È lo scenario della malattia di Alzheimer, una delle grandi patologie cronico-degenerative delle società contemporanee, che non compromette solo la memoria e altre facoltà cognitive dei pazienti, ma assorbe risorse, sottrae tempo, intacca salute e prospettive di lavoro dei caregiver.

Lo confermano anche i dati della terza ricerca realizzata di recente dal Censis con l'AIMA (Associazione Italiana Malattia di Alzheimer): i costi diretti dell'assistenza in Italia ammontano a oltre 11 miliardi di euro, di cui il 73% a carico delle famiglie. Il costo medio annuo per paziente è pari a 70.587 euro e comprende i costi a carico del Servizio sanitario nazionale, quelli sostenuti direttamente sulle famiglie i costi indiretti come gli oneri di assistenza, i mancati redditi da lavoro dei pazienti, etc. Le famiglie si fanno carico sempre più spesso delle attività di cura e sorveglianza, sacrificando salute e lavoro: solo il 56,6% dei pazienti è seguito da una struttura pubblica, mentre il 38% delle famiglie deve ricorrere a una badante, attingendo per lo più a risorse proprie. Di fronte a un impatto sempre meno sostenibile, sicuramente è l’intero modello assistenziale che andrebbe ripensato, potenziando la rete dei servizi e prevedendo interventi a sostegno del malato e dei caregiver. Accanto a questo approccio sinergico, un ruolo cruciale lo potrebbe avere la ricerca scientifica, poiché la scoperta di un farmaco, capace di ritardare di soli 5 anni lo stato di perdita dell’autosufficienza del paziente, avrebbe un impatto significativo sui costi sociali e sanitari.

È l’indicazione su cui concordano decisori istituzionali, specialisti e rappresentanti di pazienti e famiglie che si sono confrontati a Roma in occasione del Corso di Formazione Professionale “Malattia di Alzheimer, cronaca di un’epidemia sociale. Tra terapie e assistenza, oltre i luoghi comuni” promosso dal Master della Sapienza Università di Roma ‘La Scienza nella Pratica Giornalistica’, con il supporto di Lilly.

«Il livello di civiltà di un Paese si misura anche dall’attenzione nei confronti dei pazienti affetti da disturbi che riguardano il cervello, che necessitano di un livello di assistenza molto più complesso rispetto ai pazienti affetti da altre patologie – afferma Mario Melazzini, Presidente AIFA – intervenire precocemente, diagnosticare la malattia nelle fasi iniziali rallentando il processo neurodegenerativo è di fondamentale importanza. Si stima infatti che, se non ci saranno investimenti in prevenzione e trattamento, solo per la malattia di Alzheimer si passerà dai 36 milioni di casi attuali nel mondo ai 115 milioni del 2050, con un aumento vertiginoso dei relativi costi sanitari.

L’AIFA e le Agenzie regolatorie di tutto il mondo stanno lavorando per agire non solo sulle procedure autorizzative favorendo, ad esempio, percorsi adattivi o condizionali per consentire un accesso alle cure anticipato, ma anche sulla consulenza scientifica lungo tutte le fasi dello sviluppo clinico».

La malattia di Alzheimer è processo degenerativo che consiste nella progressiva perdita di neuroni e si manifesta con il declino anch’esso progressivo della memoria e di altre funzioni cognitive, come ad esempio la capacità di formulare e comprendere i messaggi verbali o di compiere correttamente alcuni movimenti volontari. L’età è il principale fattore di rischio: la prevalenza, molto bassa sotto i 65 anni, cresce con il progredire degli anni (35% a 80-90 anni). Le cause della malattia non sono chiare, ma è accertato un anomalo deposito della proteina amiloide a livello cerebrale. «A ragione la demenza, di cui l’Alzheimer rappresenta il 60-70% dei casi, è definita un’epidemia – afferma Rossella Liperoti, Geriatra dell’Unità Valutativa Alzheimer, Fondazione Policlinico Universitario “A. Gemelli” di Roma – lo è dal punto di vista sanitario in quanto i numeri delle demenze sono in drammatico aumento, un milione i malati solo in Italia, e raddoppieranno nei prossimi vent’anni, e lo è dal punto di vista sociale, perché la malattia di Alzheimer non colpisce solo il paziente, ma coinvolge la famiglia e la società a causa dei costi assistenziali e sociali elevatissimi che ricadono quasi per intero sul nucleo famigliare, poco supportato dai servizi che sono molto difformi sul territorio nazionale».

Secondo l’indagine Censis-AIMA il caregiver dedica al malato di Alzheimer mediamente 4,4 ore al giorno di assistenza diretta e 10,8 ore di sorveglianza. Il 40% dei caregiver, pur essendo in età lavorativa, non lavora e la percentuale dei disoccupati è del 10%, triplicata rispetto a soli 10 anni fa. L'impegno del caregiver determina conseguenze anche sul suo stato di salute, in particolare tra le donne: l'80,3% accusa stanchezza, il 63,2% non dorme a sufficienza, il 45,3% afferma di soffrire di depressione, il 26,1% si ammala spesso.

A tutt'oggi, non vi sono terapie in grado di prevenire o curare la malattia di Alzheimer: alcuni farmaci vengono utilizzati per alleviare certi sintomi quali l'agitazione, l'ansia, la depressione, le allucinazioni, la confusione e l'insonnia. Questi farmaci sono efficaci per un numero limitato di pazienti e per un periodo limitato nel tempo, e possono causare effetti collaterali indesiderati. Alla terapia farmacologica si affiancano le terapie di riabilitazione (ad esempio la terapia occupazionale, la musicoterapia, etc.) che hanno lo scopo di mantenere il più a lungo possibile le capacità residue del paziente.

Nonostante siano in corso molte ricerche e siano stati fatti significativi passi avanti nella ricerca farmacologica, ancora non abbiamo una cura in grado di modificare la storia naturale della malattia, arrestando o rallentando il processo degenerativo: a questo obiettivo mirano le cosiddette terapie “sperimentali” - messe a punto e studiate da diverse aziende farmaceutiche - come quelle che agiscono direttamente sui meccanismi coinvolti nell’accumulo di beta-amiloide.

«Il contributo della ricerca sta in due parole: “la cura”, che blocchi o rallenti la malattia – dice Paolo Maria Rossini, Direttore dell’istituto di Neurologia del Policlinico “Gemelli” di Roma – ricordiamo che l’Alzheimer è una patologia multifattoriale, e i ricercatori lavorano su molteplici filoni con molecole che possano contrastare la beta-amiloide, la proteina Tau, i processi di ossidazione, i metalli pesanti come il rame libero. Alla fine, come è accaduto per l’AIDS, non avremo un singolo farmaco efficace ma un cocktail di farmaci orientati verso potenziali bersagli. Il punto cruciale però è un altro: serve un cambio di paradigma nell’identificare i potenziali malati, questa malattia infatti si instaura almeno vent’anni prima della comparsa dei sintomi iniziali, il cervello riesce a contrastarla per lungo tempo».

La ricerca farmacologica è però solo un aspetto della risposta integrata necessaria per affrontare la sfida della malattia di Alzheimer: altrettanto importante è mettere a punto un possibile modello di gestione della patologia e delle sue ricadute socio-sanitarie, per arrivare a un percorso adeguato affinché pazienti e caregiver non vengano più lasciati soli.

“Non dimenticare chi dimentica” è lo slogan che sintetizza l’impegno dispiegato in questa direzione dall’Associazione Italiana Malattia di Alzheimer che, oltre a offrire supporto a pazienti e caregiver, è impegnata in una riflessione sul sistema del welfare, per “inventare” soluzioni, suggerire e proporre modifiche e cambiamenti a tutela di pazienti e familiari.

«I dati della terza indagine realizzata dal Censis con l’AIMA, che ha analizzato l’evoluzione negli ultimi 16 anni della condizione dei malati di Alzheimer e dei loro familiari, confermano il carico non solo psicologico e sociale ma anche economico gravante sulle famiglie: ciò rende ancora più urgente la costruzione di una rete territoriale di servizi adeguati per sostenere le famiglie nel lungo percorso di malattia – spiega Patrizia Spadin, Presidente AIMA – purtroppo nel nostro Paese soltanto alcuni territori, in poche regioni, offrono una reale integrazione tra sanità e assistenza, che mette il paziente e la famiglia al centro di una rete virtuosa e competente».

Insomma, se lo scenario si profila drammatico, non mancano in Italia modelli e buone pratiche da replicare per affrontare l’emergenza attuale e quella futura. Per concretizzarli occorre però l’impegno sinergico tra tutti gli attori finalizzato a una strategia di azioni sostenibili in grado di migliorare la qualità di vita dei pazienti e dei loro caregiver: dalla prevenzione alla diagnosi certa, dai trattamenti farmacologi al percorso assistenziale adeguato ai bisogni.