Meditazione di Don Giuseppe Caiazzo per la Terza Domenica di Pasqua


MATERA - La vita dei pescatori non è facile. Non basta avere una barca e una rete per pescare. C’è bisogno di esperienza, di predisposizione alla fatica, alla delusione perché non sempre si fa una buona pesca. Bisogna vegliare, andare al largo e spesso sfidare le intemperie del mare rischiando anche la vita. Non basta saper nuotare: il moto ondoso a volte crea vortici che risucchiano ogni cosa negli abissi. I pescatori, una volta tirate le reti, con o senza pesce, continuano a lavorare per ripulirle da alghe o altro rimasto impigliato per rimetterle in ordine ed essere pronti a rigettarle per la notte successiva. Non si pesca di giorno in quanto i pesci sono più attratti verso il fondo del mare, mentre di notte salgono a galla attratti dalla luce della luna, delle stelle ma soprattutto dalla lampare degli stessi pescatori.

La figura dominante, di questa domenica, dopo quella di Tommaso di domenica scorsa, è proprio quella di Pietro, il primo degli apostoli che si ritrova ad essere il più demotivato, scoraggiato, tanto da scegliere di ritornare a fare esattamente quello che faceva prima che Gesù lo chiamasse: il pescatore.

Nonostante avesse avuto testimonianze della risurrezione e lui stesso avesse visto il sepolcro vuoto, non ancora convinto, non guida e non incoraggia i discepoli, come Gesù gli aveva chiesto. Si porta dentro una delusione grande. Si sente ferito, così come chi perde una persona cara, chi perde il lavoro. La fiducia riposta nel Maestro, quindi in Dio, è inutile. L’unica cosa che sa dire ai suoi amici è questa: «Io vado a pescare».

Ritorna esattamente nel posto di prima, dimenticandosi che proprio lì Gesù gli aveva detto che sarebbe stato pescatore di uomini. E in questo camminare a ritroso trascina anche gli altri: «Veniamo anche noi con te».

Una notte di duro lavoro: ormai non sono più abituati da qualche anno. «Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla». Hanno faticato inutilmente e mai hanno ottenuto un risultato così deludente. Tornare indietro, senza Gesù, è la vera fine di tutto. Passano da una delusione all’altra. È come se non fossero più capaci di fare niente. Sono fortemente demotivati e scoraggiati così come capita quando a una situazione di dolore si aggiunge un’altra e poi un’altra ancora.

Immagino i pescatori piegati sulle reti per riassettarle. Delusi continuano a fare le cose ma senza mordente: le fanno perché le devono fare. Sono venuti meno l’entusiasmo, la voglia di fare, la gioia dello stare insieme come avevano fatto chissà quante altre volte. Sono fortemente demotivati: sentimento la cui origine è da ricercare in quella notte nel Getsemani, nello sconcerto generale, tra fuggi fuggi e rinnegamenti vari. Improvvisamente la vita è stata sconvolta. Si ritroveranno insieme ma nel chiuso di una casa dove non avvertono la presenza di Gesù vivo e vittorioso. La gioia della risurrezione non ha contagiato ancora né Pietro né gli altri amici.

In questa triste atmosfera, ancora una volta Gesù risorto si avvicina e chiede: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». “Ma che domanda è questa?” – si saranno chiesti – “Come può essere il nostro stato d’animo se le reti sono vuote?” – Una risposta secca, senza alcuna possibilità di replica. Lo avvertono come un intruso, per cui gli rispondono: «No». Ma lo sconcerto aumenta nel momento in cui chiede loro, esperti pescatori, di fare qualcosa di assurdo, contro ogni logica: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». L’evangelista taglia corto e dice: La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Immagino che avranno improvvisamente alzato la testa e fissato lo sconosciuto con meraviglia, forse anche con rabbia. È la sensazione che si prova quando nei momenti difficili della vita, qualcuno si avvicina, ci mette la mano sulla spalla dicendo: non ti preoccupare! Frasi consolatorie che provocano senso di fastidio quando invece cerchi silenzio o semplicemente un abbraccio, una stretta di mano, vicinanza al tuo dolore.

La forza dell’amore che anima le sponde del lago di Tiberiade, per la presenza e le parole di Gesù, che ancora Pietro non riconosce, lo spinge a fare ciò che un pescatore non farebbe mai. Ubbidendo al Signore, pur non riconoscendolo, fanno una pesca come non era mai successo: le reti sono stracolme, stracolme di 153 grossi pesci, non si rompono. I pesci rappresentano tutte le specie che si conoscevano e le reti la Chiesa che riesce a contenere tutti i suoi figli senza spezzarsi (le porte degli inferi non prevarranno contro di essa, anche quando gli attacchi contro di essa saranno i più feroci).

Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Finalmente gli occhi di uno di loro, Giovanni, si aprono nel riconoscere in quell’uomo Gesù risorto! La reazione di Pietro mette in evidenza lo stato confusionale nel quale si trova. Un pescatore, prima di tuffarsi in acqua, non si mette addosso i vestiti. Pietro lo fa. Succede che di fronte ad eventi straordinari della vita rimaniamo talmente impressionati o confusi che per la gioia o il dolore reagiamo in maniera del tutto illogica.

L’ultima scena è di una tenerezza unica. Gesù, a questo punto, prende Pietro in disparte, lo fissa negli occhi, facendogli una triplice domanda. La risposta di Pietro è imbarazzante ma piena di verità. Non riesce a dire, all’inizio, la piena verità, ma alla terza domanda si arrende: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Ma qual è questa domanda? Gesù chiede: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?», la prima volta. «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?», la seconda volta. «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?», la terza volta.

Precisiamo subito la terminologia. I vangeli sono scritti in greco. Per dire “amore” si usano tre termini: eros (attrazione fisica), filia (bene tra amici), agape (amore vero e proprio).

La domanda che Gesù pone a Pietro è esattamente: Agapàs me pléon toùton, sia la prima che la seconda volta. La risposta di Pietro è molto imbarazzante in quanto non dice agape ma filia. Ha ragione. Si porta dentro quel triplice tradimento che lo ha segnato e non coglie che la domanda ripetuta per tre volte da Gesù ha lo scopo di guarirlo da quella ferita ancora sanguinante. Il Maestro sa benissimo che non è stato in grado di amarlo secondo l’agape, pur volendogli bene. La scena diventa ancora più bella nel momento in cui è Gesù che scende dalla pienezza dell’amore che prova per lui, al suo livello e gli chiede: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?» (fileis me) Pietro, a questo punto, si arrende completamente e risponde: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». È la sincerità di un uomo che pur avendo ricevuto tutto da Gesù, compresa l’investitura ad essere il primo dei discepoli con il compito di guidare la Chiesa, sa che nel suo cuore ancora non abita la pienezza dell’amore ma certamente un bene, seppur grande, che il Maestro conosce benissimo.

Questo è il momento decisivo della liberazione: Pietro non sarà mai in grado di amare Gesù allo stesso modo in cui è stato amato e viene amato. Questo significa che nessuno di noi potrà mai dire di amare il Signore abbastanza, anche quando, come S. Teresina di Lisieux, scopriamo che la nostra vocazione è l’amore! Nonostante tutto, Gesù ci cerca, si fida e ci affida la missione di essere, nella diversità ministeriale, pastori, guide, testimoni.

† Don Pino