Escape Of the Roof: ''Viviamo nell’era dell’esposizione esagerata''



Escape of the roof tornano con un 'Fried Blues Chicken' il nuovo singolo che annuncia il primo capitolo di un racconto surreale, inverosimile, unico nella sua complessità narrativa, in cui l’obiettivo dichiarato della band, che vuole rimanere anonima, è quello di porre l’attenzione massima sulla musica come arte collettiva e sul suo messaggio. Il brano è il primo estratto dal nuovo album omonimo Escape to the Roof.

 Escape to the roof è il nome della vostra band, ma come mai la scelta di questo nome?

E' sostanzialmente un segnale di emergenza, sì usa in Inghilterra e negli stati anglofoni, ovunque negli edifici pubblici, quale indicazione sulle tabelle per individuare il percorso stabilito dai piani di fuga in caso di emergenza. A noi piaceva molto l’accostamento con ciò che facciamo: la nostra band e il nostro progetto artistico diventano il nostro personale piano di fuga in caso di emergenza. Ma non solo, ci piaceva soprattutto che questo piano di fuga potesse significare cambiare punto di vista sulle cose, le cose dell’arte, della vita, tutte le cose. Quindi non una vera e propria fuga, non scappiamo da nulla, ma è la nostra personale “emergenza”, la nostra urgenza di cambiare punto di vista. C’è chi, in caso di emergenza, “rompe il vetro”, noi preferiamo cambiare punto di vista e salire sui tetti. Dall’alto si vede tutto molto meglio, e a volte ciò che da vicino sembra problematico, col cambio di punto di vista, col distacco dell’altezza, la ricerca di una soluzione alternativa diventa rasserenante. E poi, dai tetti si vedono meglio le stelle, che è una pratica che aiuta a rimettere ogni cosa al proprio posto, a ridimensionare, o a dare la misura giusta a ogni cosa. 

Avete deciso di rimanere anonimi, perché?

Viviamo nell’era del sovraffollamento e dell’esposizione esagerata d’immagini di ogni genere, e lo show business musicale non fa eccezione, e l’idea di rivolgere il nostro gesto artistico alla mercificazione tritatutto non ci allettava per niente. C’è una ressa, una saturazione d’immagini, di figurine, senza precedenti, quasi soffocante, e sono tutti lì che si aspettano di essere collezionati, seguiti, taggati, visualizzati. Per questo, oggi, per stare dentro questo business bisogna essere fotogenici, supetelevisivi, sempre sorridenti, mai banali, mai politically incorrect, sempre interessantissimi ecc. Viviamo l’era in cui non si può più dire nulla senza scatenare le proteste dell’associazione di turno. Io rivendico il sacrosanto diritto di essere poco fotogenico, persino brutto, mai televisivo, o televisivo a tratti, sorridente quando c’è da sorridere ecc. Ecco, chiediamo scusa alle Associazione Per la Tutela dei Diritti dei Fotogenici e dei Supertelevisivi, non volevamo offendere nessuno. 

Ad ogni modo, la storia ci insegna che dissociare la biografia dell’autore dall’atto artistico non altera la possibilità di fruire, in tutta la sua potenzialità, il messaggio che da esso deriva, anzi credo sia l’unica cosa rimasta da fare come atto di nuova insurrezione rispetto a quello che ci circonda. Per di più, un atto artistico dissociato dalla biografia del suo autore, aiuta l’utilizzatore a individualizzare meglio e a interpretare il messaggio per quello che è oggettivamente. È l’unica maniera per fare diventare l’atto artistico arte collettiva, che è alla fine dei conti la massima aspirazione per un artista. Penso a Omero e alla questione omerica, dibattito ancora oggi vivo che mette in dubbio l’esistenza stessa del poeta. Penso all’anonimato che cancella gli artisti dall’epicentro del gotico francese, eppure le grandi cattedrali dell’Île-de-France continuano ad apparirci come capolavori indiscutibili, capolavori collettivi voluti e costruiti dalle comunità civili dell’epoca. O, per citare dei nomi a noi più vicini, Banksy, Liberato, Blu, Elena Ferrante… credo che il proposito di questi artisti non fosse certo perché fa tanto figo fare l’anonimo per farsi dare la caccia e finire poi, consapevolmente o no, a sedere tra gli ospiti di un programma del primo pomeriggio del venditore d’immagini di turno col sorriso scintillante sulla faccia. Quindi, né moda né necessità di nascondersi, ma a dirla tutta, i nomi talvolta sono né più né meno che contrassegni tombali, decorazioni per lapidi.

Fried Blues Chicken, l’inizio del vostro racconto. Di cosa si tratta?

Fried Blues Chicken vuole essere una riflessione sulla condizione contemporanea dell’uomo, e della vita che conduce, che è una vita dal ritmo quotidiano vertiginoso, che spaventa tanto è veloce. Ma, nonostante tutto, l’uomo contemporaneo nutre sempre delle aspettative, alimenta delle aspirazioni. Lo spunto viene da un famoso esperimento condotto da un biologo americano, che negli anni ’90 fece degli studi su una colonia di polli. Era un esperimento che aveva il suo focus sulla produttività. Quindi, selezionando gli esemplari più produttivi, sperava di ricreare una colonia a parte di “superpolli”, così come li chiamò lui. Quindi, di generazione in generazione, queste colonie crescevano e vivevano separatamente, e gli esemplari più produttivi della colonia base, passavano regolarmente nella colonia dei superpolli. Ecco, alla fine, dopo sei generazioni, il biologo scoprì sorprendentemente che gli esemplari cosiddetti “normali” erano belli paffutelli e rigogliosi, produttivi nella media, ma in salute, invece gli esemplari della colonia dei superpolli erano tutti morti, eccetto tre che avevano beccato a morte tutti gli altri: si erano autodistrutti per eccesso di competitività.

Ecco in Fried Blues Chicken, che è di per sé un titolo che ricorda proprio una portata da fast food, il ragionamento parte proprio da questo esperimento per riflettere un attimo su chi vogliamo essere, e su cosa invece stiamo, o siamo già diventati, polli da batteria? O peggio già siamo belli che fritti e siamo serviti nei fast food della nostra personale esistenza. Per cui, questa è la domanda che dovremmo porci tutti. Anche io mi sono fatto la stessa domanda, ovviamente, e la risposta che mi sono dato è che non vorrei essere né pollo né superpollo, e lungi dall’essere bello che fritto. Voglio dire, se dovessi un giorno, malauguratamente, ammettere a me stesso di essere diventato un pollo, allora probabilmente sarei un pollo sui generis, perché sono sicuro che il mio sogno da pollo sarebbe quello di volare come gli altri uccelli.

Fried Blues Chicken è il primo capitolo di questo racconto, che però non vogliamo certo anticipare. Come per ogni storia che si rispetti, ci sono delle regole di narrazione che non vanno tradite, e non vogliamo farlo, la struttura stessa dell’opera crollerebbe miseramente. Posso solo invitare tutti a seguirci in questa storia, per la quale però, un avvertimento è dovuto: anche lo spettatore/lettore/ascoltatore deve fare la sua parte per incontrare il narratore. Non è una storia passiva, lo spettatore deve interagire, scavando tra i significati, mettendo insieme i vari tasselli sparpagliati qua e là, dedurre, supporre, esperire emozioni attraverso i suoni, i panorami sonori. Il narratore/autore si trova al di là di tutte queste cose, e nonostante il percorso creato per raggiungerlo sia disseminato di trappole narrative, depistaggi, volontari o involontari che siano, salti temporali avanti e indietro apparentemente senza motivo, egli è lì e si aspetta di essere raggiunto, nel luogo in cui autore e spettatore diventano quasi un’unica cosa tanto hanno condiviso strada facendo, e insieme possono liberarsi a una grassa risata, senza dovere aggiungere nient’altro, semplicemente, senza più ornamenti superflui. Alla fine il gioco di ogni narratore/autore è esattamente questo.

La traccia sarà parte un progetto più organico come un disco, o EP?

Fried Blues Chicken è il primo singolo. Il 2 Dicembre sarà la volta di Still Raining, entrambi estratti dall’album, che contiene dieci tracce, che sarà pubblicato il 23 Gennaio 2023. E giusto perché non vogliamo adagiarci sugli allori, siamo già a lavoro su nuovo materiale e stiamo già programmando i lavori sul prossimo disco.

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